Pandemia e nuovi maestri del sospetto

Pandemia e nuovi maestri del sospetto
Abstract
 
In Italy philosophers of the calimber of Agamben and Cacciari continue to fight against any form of health certification (green-pass) since, according to them, it would be an expression of illiberism, of health dictatorship.
They live in the fear that democracy and freedom may be lost.
It is necessary that philosophers get rid of old intellectual categories by recognizing that every activity, intellectual and political, must be a synthesis between the reality principle and self-compliant pleasure principle.
 
Giorni fa a Torino, Ugo Mattei, professore di diritto, ha organizzato presso l’International University College of Turin un convegno dal titolo «Le politiche pandemiche».
Presenti i filosofi Massimo Cacciari e Giorgio Agamben (on-line), altri intellettuali e alcuni parlamentari.
Questi signori non sono da liquidare come no-vax anche se le cronache riportano che tutti fossero senza mascherina.
Cacciari ha detto: «Lo stato di emergenza non finirà: c’è l’intenzione di trasformare il green-pass in uno strumento di controllo e sorveglianza permanente sempre più pervasivo».
Ecco qual è il punto: la paura che lo stato d’emergenza che costringe a mascherine e green-pass e controlli possa diventare endemico. La paura che lo stato d’eccezione divenga la regola e sia l’anticamera della cosiddetta dittatura sanitaria.
 
Lo scorso anno, a primavera, in pieno primo lockdown, curavo un saggio della Stilo Editrice dal titolo: Filosofia nella Pandemia, l’altro vaccino. Nella mia introduzione e nelle pagine interne rivendicavo innanzitutto che la situazione pandemica fosse magmatica e non preconizzabile nei suoi effetti e durata: la pandemia stava determinando inesorabilmente un cambiamento antropologico le cui risposte non andavano chieste ai medici ma ai filosofi. Il tema della biopolitica ritornava a essere cogente e riproponevo il pensiero di due campioni che di tale tematica avevano fatto la loro battaglia intellettuale, vale a dire Michel Foucault e Giorgio Agamben, uniti in un unico grido: attenzione a non permettere che il sistema politico acquisisca ulteriore forza panoptica, ovvero capacità di controllo a spese della democrazia e della libertà.
Effettivamente, il covid, malattia polmonare sorta dal nulla (a tal proposito c’era stata la profezia pubblica del presidente Obama già nel 2014), stava terrorizzando l’occidente inducendo i governi a segregare in casa un miliardo di cittadini occidentali.
Il timore incusso dalla malattia e dalle migliaia di vittime produceva l’estrema obbedienza dei cittadini alle regole, facendo presagire un cambiamento drastico di tutte le abitudini (ricordate la desolazione delle città che invitava gli animali selvatici a impossessarsene?).
Scrivevo in quel periodo:
«Anche se la filosofia non riesce a essere significativa per la politica, diventa chiave di lettura di un mondo possibile che, seppure non scelto – ripeto: non c’è la denuncia di un complotto! –, potrebbe alimentare la deriva della socialità. In questo momento storico, la salvaguardia della vita potrebbe divenire esiziale per la libertà, la scelta, il pensiero, l’immaginazione senza che però i cittadini ne siano consapevoli, anzi, ignari complici». (Filosofia nella pandemia, p. 33)
In quel momento solidarizzavo col bistrattato Agamben che ci avvertiva sugli effetti nefasti che le politiche di controllo sanitario avrebbero potuto determinare sulla società; se la pandemia fosse perdurata, avremmo dovuto continuare a vivere con l’incubo di non uscire di casa, di motivare gli spostamenti, di inibire relazioni e rarefare le frequentazioni? Avremmo dovuto continuare ad abbandonare i nostri cari in ospedale senza più poterli rivedere?
Terribile. Meglio il rischio di morire di covid piuttosto che subire la disumanizzazione. Piuttosto, la pandemia e il timore della malattia avrebbero dovuto riportare l’uomo a riscoprire il suo sostrato coscienziale, che non è fatto di rancorosa lotta per la sopravvivenza ma di indomabile desiderio di pienezza e libertà.
 
Mentre si discuteva di tali teoremi, la Scienza (quella lontana dalla chiacchiera televisiva) ha trovato un antidoto al Male: il vaccino.
In questa sede non intendo parlare di efficacia, di guerre commerciali e di speculazione, mi rifaccio al vaccino con ciò che storicamente esso ha rappresentato per l’umanità, almeno dalla fine del settecento grazie a Edward Jenner: la forza razionale dell’uomo che sconfigge l’avversità della Natura che lo sovrasta; è la forza della mente che s’impone sulla limitatezza della sua stessa natura di uomo.
Il vaccino contro il covid ha dimostrato di funzionare, come tutti i farmaci, non con una logica meccanicistica ma probabilistica; l’efficacia all’80-90% si riscontra nella diminuzione dei ricoveri e delle morti che un anno dopo, a fronte della campagna vaccinale, stiamo sperimentando attorno a noi.
Vaccinarsi significa sia avere margini di sicurezza ulteriori per la sopravvivenza sia, contemporaneamente, ripristinare le nostre libertà di relazione condizionate dalla sindrome dell’untore.
Significa che il vaccino è un punto d’incontro tra il principio di realtà che mi dice “attento a non ammalarti” e il principio di piacere che mi stimola a uscire, frequentare gente, rilassarmi, vivere liberamente.
 
Quando compii diciotto anni, chiedo scusa per questa digressione, invitai mio padre a comprarmi una moto più potente; possedevo al tempo solo una piccola vespa, che a quell’età mi era permesso di guidare, per cui divenuto maggiorenne avrei voluto fare un salto di qualità! Nelle more della contrattazione col mio genitore, il parlamento italiano introdusse una legge (nel 1986) che imponeva la guida della moto con l’obbligatorietà del casco. Io vissi quella legge con un senso di impotente ribellione e di rabbia furente. Andare in moto col casco significava limitare la mia libertà, il casco sarebbe divenuto un’appendice fastidiosa. Non accettavo discorsi del tipo “è per la nostra salute, per il nostro bene, sai quanti giovani si rompono la testa” e così via. Avrei voluto essere libero di scegliere il mio destino, anche di ammazzarmi se avessi voluto: perché lo Stato si imponeva sulla mia volontà? In verità, lo comprendo ora, mi facevo prendere dal piacere di sfrecciare col vento nei capelli senza verificare la realtà delle statistiche degli incidenti motociclistici, che mi avrebbero portato a conoscere quanti giovani rimanevano sulla sedia a rotelle.
 
Ebbene, è un po’ il paradosso che stanno vivendo tutti coloro che non accettano che lo Stato consigli di vaccinarsi o, peggio, imponga il green-pass: li comprendo quando dicono che lo ritengono un’imposizione, un oltraggio alla libertà.
Non comprendo Agamben e Cacciari che ancora denunciano questo passaporto sanitario come se fosse una prova tecnica di dittatura.
Al netto di tutti gli errori, delle contraddizioni di virologi e politici, del rischio della vaccinazione insito in ogni terapia, come non riconoscere che l’accettazione di decisioni politiche anche fastidiose possano essere interpretate alla luce di un modello cooperativistico piuttosto che impositivo?
Al netto dell’ennesima conferma che la scienza medica sia popperianamente falsificabile (la solita storia del genere umano - occidentale, sic!- che comunque riesce a spostare sempre più in avanti l’aspettativa di vita), come non riconoscere che tollerare le norme è un passo ulteriore verso il meglio plausibile, piuttosto dell’accettazione passiva dell’imponderabile?
 
A voi, che siete stati miei maestri, chiedo che decliniate i vostri pensieri alla luce delle scoperte e del nuovo che avanza, tenendo fede al vostro principio di realtà, vincendo il narcisismo dei vostri principi, evitando di trasformarli in logocentrismo o, peggio, nelle weltanschauung che avete sempre combattuto.
 
Vi chiedo di non fare come feci io, che non volli più comprarmi una moto.
 
In the photo: Massimo Cacciari, Ugo Mattei (torinotoday.it)
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Comments

  • The old 'I'-'We' Problem (a form of the Fear Problem in my work)... pleasure principle and reality principle --respectively; there are many angles to frame this all. I find there's still so little thinking that can transcend the fear-based argumentations with this problem. It's as if we are so hurt/traumatized by the I-We problem, extremes are the only way to go, which of course, is not the way I would recommend. 

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